Cerca nel blog

martedì 27 luglio 2010

Ugo Moretti

"La lunga opera e la ricca esistenza di Italo Squitieri sono legate alla sua terra lucana così strettamente da costituire un vero patrimonio spirituale di una regione, per molti ancora incognita, il vero cuore del Sud, ma gonfia di bellezza, nutrita di antichi misteri che si manifestano sempre ritualmente, intatti nella sostanza orfica che affonda le sue radici fino ai limbi del mito. Non è possibile, secondo me, scindere la pittura di Squitieri dalla sua origine di lucano e seguendo i suoi itinerari di ricerca, si potrebbe ricostruire l'avventuroso cammino che i primi lucani sicuramente compirono partendo dalle rive lucenti e dai boschi profondi che dettero il nome alla loro terra.

...dopo la guerra, l'orgia degli 'ismi' divenne un carnevale impraticabile e Squitieri fuggì letteralmente da Roma, rifugiandosi a Cortina d'Ampezzo, nella conca naturale coronata di montagne di incredibile maestà, nel silenzio eterno delle nevi. Qui la pittura diviene una cosa sacrale, forte, severa. I quadri di questo periodo hanno le caratteristiche di un clima morale teso alla ricerca dell'essenziale: i volumi compatti, i colori netti, nessuna concessione al piacevole, ogni cura alla meditazione, la luce protagonista dei tagli e base della composizione. Raramente si sono visti dipinti di tale rigore etico e formale. Un periodo che è stato per Squitieri largamente proficuo ed ha allargato gli orizzonti delle sue tele, le proporzioni delle figure, gli ha consentito una dimensione visiva di aria, piena di estrema apertura.

...i suoi quadri sono dovunque nel mondo, nelle collezioni più selezionate, nelle gallerie pubbliche e nelle raccolte private: dovunque, nel Sud America e in Svizzera, in Estremo Oriente e a Hollywood, a Parigi e a Monaco, a Londra, a Roma, c'è un brano vivo della Lucania, un pezzo del suo cuore fissato su una tela, una donna bellissima, uno squarcio di mare di smeraldo, un paese che sboccia dalle rocce, un corteo di figure, un mobile, un fiore, uno sguardo come una spada di luce, una mano ieratica, un panneggio vestale; c'è insomma lo spirito leggendario ancestrale della Lucania, così amata da uno dei suoi figli migliori." 

scritto da UGO MORETTI

tradizionalista e moderno

"La sua pittura è fra le prove figurative più notevoli per impegno di composizione e perspicua dosatura di cromia. Il filtro del colore è sempre arioso, immune dalle alchimie devianti; e si adatta con estrema naturalezza ad un 'transfert' arcaico e all'ardore sottilmente allucinato dell'ora presente.
Con queste doti Italo Squitieri può considerarsi, come Funi, Sironi, Marussig e gli altri protagonisti del gruppo Novecento, 'tradizionalista e moderno' nell'accezione più positiva del binomio."


Renato Civello

lunedì 26 luglio 2010

influenze sironiane

"Decisivo per Squitieri l'incontro con la pittura di Sironi, un artista che lascerà in lui un segno profondo: infatti Squitieri ha accolto quel senso arcaico monumentale, eroico, dell'arte sironiana per piegarlo alla sua ispirazione ottimista, per esprimere quel mondo lucano, arcaico, pastorale, in una sorta di monumentalità elegiaca-contadina, con toni qua e là più accesi, attuando il cupo pessimismo di Sironi in una sorta di favola simbolico-meridionalista, con una tecnica pittorica di notevole mestiere.
Squitieri ha viaggiato per il mondo, negli anni '30, soprattutto in Medio Oriente, "affascinato (come lui mi dice) dalle pietre cariche di storia, di millenni, di mistero". 
A Parigi conosce Picasso, Max Ernst e Chagall, diventa amico di Hemingway che frequenterà per molti inverni a Cortina d'Ampezzo e a cui farà numerosi ritratti.
Diventa amico della pittrice Colette Rosselli e di suo marito Indro Montanelli che scrive su di lui un simpatico profilo..."

una testimonianza di FRANCO SIMONGINI




"...la conoscenza con Mario Sironi impresse al suo stile un carattere di arcaica robustezza, di costruttività solida, sia nella figura che nei tagli e gli scavi paesaggio. Ma mentre Sironi, già all'inizio della cupa crisi che doveva tormentarlo fino al termine della vita costruiva i suoi spazi nelle tenebre di un dolore senza speranza; Squitieri cercò la luce, aprendo grandi varchi nelle terre massicce, negli sguardi delle figure, nei cieli in tempesta e per lui la luce fu ed è sempre una gioiosa carica di certezza."

una testimonianza di UGO MORETTI

FRA CENT'ANNI di Cesare Marchi

Squitieri il potere non lo giudica, lo rappresenta, ridendoci sopra, d'un riso acre.
Quello che subito colpisce è la monumentalità della concezione, un gusto scenografico della materia, corposa e scabra. Squitieri ha studiato ingegneria e si vede. Suo padre, costruttore, gli ha lasciato nel sangue la propensione per l'architettura.
"POSSIAMO DEFINIRTI UN COSTRUTTORE CHE DIPINGE?"
"Direi, piuttosto: un pittore che costruisce"

"PERCHE' DIPINGI SOLO DONNE LUCANE?"
"Perché io abito a Cortina, ma sono lucano. Carlo Levi ha visto quella terra sotto l'angolazione sociale, io sotto l'angolazione mitica. Vado spesso laggiù a far provvista di 'mito', cerco la donna che fa la fattura, il contadino che recita i proverbi. E' gente assai fiera e chiusa, non per nulla deriva da 'lucus', selva. Un esempio. Al mercato una venditrice di uova napoletana supplica i clienti affinché comperino. La donna lucana, invece, se ne sta impassibile con il cesto sottobraccio. La sua dignità le vieta di parlare"

"QUANDO HAI COMINCIATO A DIPINGERE?"
"A sette anni, a Potenza. Ritrassi, sulla parete del salotto, un'amica di famiglia. La mamma subito mi diede una sberla, poi mi comprò i colori"

"QUAL E' IL MOMENTO PIU' BELLO DELLA GIORNATA?"
"La notte. Dipingo solo di notte. Mi è necessario il silenzio. La Musa non ama essere disturbata dal telefono"


"DI CHI TI SENTI MAGGIORMENTE DEBITORE?"
"Di Masaccio tra i classici e di Sironi tra i contemporanei. Anche Sironi, guarda caso, studiò ingegneria. Debbo aggiungere l'arte egizia, Beckmanne e Marmeke"


"TU PASSI PER UN UOMO TRANQUILLO. MA SE POTESSI SCEGLIERE, CHI VORRESTI ESSERE?"
"Mi piace essere Squitieri. Vorrei continuare ad esserlo ancora per tanti anni. Ne ho settantadue"


"QUAL E' IL TUO PRIMO PENSIERO APPENA SVEGLIO?"
"Mi sveglio e resto a letto almeno un'ora, a fantasticare. Dipingo col cervello"


"IN CHE CONTO TIENI IL GIUDIZIO DEGLI ALTRI?"
"Non credo a quelli che affermano di dipingere solo per se stessi. Non che io dipinga per piacere agli altri, intendiamoci, ma per essere da loro visto e giudicato. E' il mio modo di comunicare con il prossimo. Se fossi sulla Luna, non dipingerei"


"FRA CENT'ANNI, QUALI DEI NOSTRI CONTEMPORANEI SARANNO RICORDATI?"
"Comincerei con Picasso"


"E DEGLI ITALIANI?"
"Casorati e Sironi"


"TUTTI GLI ALTRI SCOMPARIRANNO?"
"Non c'è il minimo dubbio"


"COMPRESO SQUITIERI?"
"Compreso Squitieri".

una testimonianza di CESARE MARCHI_ anno 1979

l'amico Indro Montanelli

Italo Squitieri rimase molto sorpreso e un po' incredulo quando gli dissi che il giorno in cui mi si desse di reincarnarmi con diritto di scelta non chiederei a Dio di farmi Leonardo o Einstein, ma Squitieri.
Eppure è così, è l'uomo che più invidio al mondo. Si guarda intorno contento e nei suoi occhi azzurri, di bambino, vedo riflesso il meglio di ciò che ci circonda, e solo il meglio.
Si tuffa in mare, e gode. Si arrostisce al sole, e gode. Se sopravviene una nuvola, dice: "Meno male, così non mi brucio".
Dalle sue avventure sulle nevi di Cortina torna sempre con la notizia di meravigliose scoperte: una valle, una chiesetta, una pala d'altare, una cassapanca intarsiata, un rifugio abbandonato, un covo di marmotte, un albero. Una volta che si ruppe una gamba sciando, esclamò giulivo: "Finalmente avrò il tempo di lavorare!".
In realtà lavora sempre, con assiduo impegno, e ciò che esce dai suoi pennelli non gli assomiglia affatto: a prendervi il sopravvento sono sempre i ricordi del suo profondo Sud, con i suoi paesaggi immobili e duri, i suoi violenti contrappunti di luce, le sue casefortino sbarrate sui lutti e la disperazione degli uomini.
Il carico di mestizia che ogni meridionale si porta addosso, Squitieri lo sfoga lì, ce lo svuota tutto fino all'ultima goccia. Poi, libero, spalanca la finestra e guarda il mondo con gli occhi di Adamo prima del peccato originale.
E' tutto sensi.
Da pittore non dipinge soltanto, ma pensa, parla e vive, traducendo ogni cosa in forma e calore.
Mai un'acredine verso gli altri, mai una scontentezza o un segno di frustrazione. Crede nella bontà degli uomini perché ha da venderne di suo. Mangia e beve luce, sulla neve d'inverno, sul mare d'estate. Una bella natura, perché solo di natura si pasce.
Mi manca la competenza per giudicarlo come artista. Ma poeta lo è di certo.


testimonianza di INDRO MONTANELLI (Fucecchio, 22 aprile 1909 - Milano, 22 luglio 2001)

domenica 18 luglio 2010

Biografia e personalità artistica

Svolge i suoi studi a Pavia ed è qui che fa il suo incontro con la pittura. Gli interessi giovanili sono per l'impressionismo (Degas) in un primo tempo e, in seguito, per il futurismo, però la via del "Novecento" è quella destinata a dare alla sua pittura l'impronta decisiva.
Negli anni che seguono, una serie di fortunate mostre in Italia e all'estero suscitano vivissimo interesse nella critica e nel collezionismo:
1929 - Prima Mostra alla Galleria "La Permanente" di Milano_ 1° premio per I GIOVANISSIMI.
1929 - Mostra Sindacale di Napoli.
1930 - Mostra Personale. Palazzo del Fascio. Potenza.
1930 - Mostra Personale nella Galleria La Barcaccia, Roma.


Nel 1931 parte per un lungo viaggio in Asia Minore, dove dipinge figure e paesaggi ispirati a quegli ambienti. Tiene mostre personali a Beirut, Damasco, Tripoli di Siria, Aleppo, Il Cairo, Alessandria d'Egitto, Rodi e Gerusalemme.
Di ritorno in Italia, nel 1936, sistema il suo studio nella nota via Margutta, a Roma, dove il suo rifiuto alle congreghe si fa più radicale, esplicito: proprio questa indipendenza nella pittura, come nella vita, gli aprono le porte della Biennale e Quadriennale, delle gallerie più qualificate, sia italiane che straniere. Espone a Londra, Berlino, Dusseldorf, Monaco, Francoforte, Ginevra e Zurigo.
A Parigi incontra Cocteau, Picasso, Max Ernst, Severini e Braque.
Nel 1940 viene chiamato alle armi come ufficiale d'artiglieria.
Alla fine della guerra ritorna a Roma. L'orgia degli "ismi" diviene un carnevale impraticabile e Squitieri decide di fuggire dalla capitale, cercando un rifugio dove raccogliere le esperienze di tanti anni e dei lontani luoghi esplorati: lo trova a Cortina d'Ampezzo.
Qui la sua pittura diviene una cosa sacrale, forte, severa: dipinge tele che cantano la bellezza dei "tabià". La tavolozza si restringe ai soli bruni dell'assito tormentato dalla furia delle tempeste, al bianco di calce sulle pareti di pietra, ai grigi rugginosi delle lastre dolomitiche, ai neri profondi degli interni, ai grigiobluastri dei cieli foschi, agli isolati punti di rosso e di giallo di qualche fiore che salvano il dramma. Mai un cielo azzurro: scadrebbe tutto in una cartolina!
Dipinge a volte montagne nude e silenti.
Le composizioni di carattere arcaico a cui Squitieri si dedica dal 1956, nutrite dai "miti" della sua Lucania, risentono sensibilmente delle esperienze di quel viaggio in Asia Minore, dove ebbe modo di studiare a fondo l'arte assira e gli Egizi.
Nell'arco di tempo che va dal 1972 al 1979, con molto impegno, dipinge IL POTERE, la sua opera maggiore: un ciclo di 26 tele come altrettanti capitoli di un unico tema.
La Mostra de' IL POTERE si aprì nello Studio 23 a Cortina nel 1979, per poi essere accolto nel 1980 alla Mostra Antologica tenutasi nella prestigiosa Villa dei Dogi Contarini, sul Drenta. Seguì una mostra a Palazzo Barberini nel 1982 e ancora a Roma nella Galleria Cangrande, nel 1984.
Nello stesso periodo, ebbe anche occasione di fare mostre all'estero e realizzare lunghi viaggi  che sono sempre stati, per Squitieri, grande nutrimento per la sua anima, non solo come artista.


Italo Squitieri muore nel 1994, all'alba del 28 dicembre, nel suo studio di Cortina, a Villa La Furlana, tra i suoi colori e i suoi pennelli, davanti alla sua ennesima creazione.

sabato 17 luglio 2010

millenovecentodiciassette e millenovecentodiciotto

Ha solo 10 anni quando il fratello Aurelio parte per il fronte...
...questi i suoi ricordi:

I SEGNI DELLA GUERRA:

Le lunghe file di prigionieri austriaci dai volti distrutti dagli stenti.

Le sere che andavo con mio padre nell'atrio della Prefettura a leggere i comunicati dal fronte.

L'angoscia che si vede sulle facce di tutti per la rotta di Caporetto.

Le donne vestite di nero, con le scarpe di pezza, fuggite dalle loro case distrutte dalla guerra, che vagavano nella piccola città con occhi smarriti e bocche che raccontavano disperazione con una parlata incomprensibile.

Il bellissimo volto di una ragazza friulana finita nelle mani di un vitellone imboscato.

Le tragiche colonne di autocarri che trasportavano soldati armati e sacchi di patate...

La bocca dolente e le lagrime di mia madre per il pensiero di Aurelio ancora al fronte.

I miei abiti fatti con panno grigioverde e le mollettiere che mi giravano attorno alle gambe in sostituzione dei calzettoni introvabili.

Le lunghe, estenuanti code agli spacci per portare a casa un chilo di pasta o farina.

Le rarissime lettere di Aurelio, col timbro di Valdobiadene di Pederobba, oltre quello rosso della censura.

La fronte scura di mio padre per le difficoltà nel lavoro.

La costernazione per i lutti improvvisi dei parenti.

I lunghi giorni di paura e di speranza.

E finalmente:

Il crepitio di mille, diecimila bandiere per la vittoria.

I garofani infilati nelle canne dei fucili dei soldati che sfilavano.

Lo smarrimento degli ufficiali che tornando alle loro case, ancora in uniforme, giravano da un caffè all'altro senza sapere che fare.

L'odore di caserma unito a quello di parrucchiere che sentii nella divisa di Aurelio, il giorno che tornò.

Tutti ricordi vivi, intrisi di patetica nostalgia, del millenovecentodiciassette e millenovecentodiciotto.

- Tratto da IL CAVALLO DI METAPONTO (autobiografia pubblicata postuma nel 1998).

Il cavallo di Metaponto

...tratto dall'omonimo libro autobiografico (pubblicato postumo nel 1998)

Lo vidi per la prima volta al tramonto.
Soltanto da poco, lame di luce avevano spaccato le nuvole nere che fuggivano ad oriente. La vastissima piana era tutta viva di verde smeraldo, i fili d'erba erano ancora grondanti di perline lucenti per la tempesta appena passata.
Lui era lì: con i tendini dei garretti tesi, pronti allo scatto, il collo proteso in avanti, la scarmigliata testa e la coda orizzontali, le nari pulsanti, lo sguardo fisso all'orizzonte, dove si staccava, nettamente viola, il colonnato di Metaponto.
Il suo manto scuro riluceva per la pioggia.
Per un momento girò la testa verso di me, poi tornò subito nella posa precedente. Non feci in tempo a fare cinque passi verso il cavallo che, con un nitrito, un'impennata, come una saetta si allontanò e scomparve.
In paese chiesi di quello splendido cavallo e chi fosse il suo padrone, ma ebbi soltanto risposte vaghe e forse ambigue. Finalmente un contadino mi disse che quel cavallo non aveva nessun padrone e che lui stesso l'aveva più volte visto dalla parte dei templi; viveva allo stato brado e nessuno riusciva ad accostarlo, ma aggiunse che portava fortuna a chi riusciva a vederlo...

...Nei giorni che trascorsi in quella misteriosa contrada, sospinto da oscuro desiderio, due volte mi recai nella piana dei Templi, ma non ebbi fortuna.
Però il terzo giorno lo rividi: era molto lontano e si spostava lentamente frugando con il muso l'erba fresca.
D'un tratto si mise a correre a zig-zag nei prati e mano a mano che si dirigeva verso il punto in cui mi trovavo, come preso da frenesia, agitando la sua arruffata testa di medusa, rompeva la corsa con brusche impennate.
Non mi venne vicino ma per tanto tempo stetti a seguirlo nelle sue bizzarrie, avvertendo dentro di me una strana agitazione.
Ad un tratto mi domandai che cosa fosse quel mio tremito dell'anima, quel precipitoso battito del cuore, quell'ansia che mi possedeva tutto.
Come fulminato, mi accorsi che fortissimamente io volevo essere quel cavallo:
La mia vita come la sua!